a cura di Elisa Zuri

Italo Calvino nel 1946, a 23 anni, scrive il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, che uscirà nel 1947 per Einaudi. È la storia di Pin, un bambino di circa 10 anni che ha perso i genitori e vive con una sorella, che fa la prostituta. Siamo nei giorni della Resistenza, dopo l’armistizio con gli anglo-americani del 1943, prima lungo i carrugi di Sanremo e dopo sulle montagne, dove imperversa la lotta partigiana.

Un giorno Pin, provocato dagli uomini dell’osteria, torna a casa e ruba la pistola di un tedesco che è a letto con la sorella. È un oggetto di cui ha timore, non sa che farne e la nasconde in un luogo conosciuto solo a lui, in campagna, il posto dove fanno il nido i ragni. A causa del furto finisce in prigione e un partigiano lo aiuta ad evadere, così Pin finisce per unirsi ai partigiani sulle montagne.

Il suo occhio è quello di uno spettatore esterno sul mondo degli adulti, che non conosce le ragioni della guerra, che osserva, ascolta. Le sue reazioni sono piuttosto filtrate dalla fame di riconoscimento e dal bisogno di umanità, di amicizia. Ma i suoi modi sono provocatori, è sgraziato. È un bambino che non riesce più a giocare con i bambini, ma è a sproposito nei discorsi degli adulti e finisce per essere deriso e appena tollerato in tutti gli ambienti. Pin è un bambino carico di amarezza e di rabbia.

Mi sono chiesta se aveva senso scegliere un romanzo ambientato un secolo fa per parlare della rabbia. Se aveva a che fare con la rabbia di oggi. Quella di un bambino poi.

Innanzitutto la rabbia dei bambini è cieca, è assoluta, perché non c’è consapevolezza del dolore. Non ci sono filtri di opportunità, freni sociali, quelli che ci permettono di non diventare delinquenti, ma anche gli stessi che, tante volte, reprimono un sentire, un grido di ingiustizia. Leggere le vicende di Pin e dei partigiani di montagna mi ha aiutato a riconoscere la mia rabbia, a sentirla bruciare senza dovermi preoccupare di gestirla. Pin, quando è a disagio, provoca, prende in giro, si mette nei guai, io non ho osato quasi mai. Pin si arrabbia con i grandi da cui vorrebbe essere tanto considerato, perché si scontra con la loro violenza, con la brutalità dei rapporti, con l’infedeltà. Io, come la maggior parte di noi, difficilmente l’ho fatto, perché il bisogno di essere amata e riconosciuta ha prevalso su quello che sentivo vero. Ho taciuto, ho fatto la brava.

Quando i bambini come Pin si sentono feriti o subiscono un’ingiustizia, si scatena un grande furore, a cui è necessario dare un nome, vederne le conseguenze per imparare a gestirlo e non trascendere.

Per i grandi è lo stesso. Cambia solo la misura dei guai e purtroppo anche del furore.

Calvino non sceglie partigiani nobili. Sceglie un reparto disgraziato, dove sono stati riuniti e isolati i peggiori, tutti tipi un po’ storti, ognuno in cerca del proprio senso, della propria giustizia. Anche questo aiuta ad immedesimarsi. Non abbiamo di fronte degli eroi, siamo fuori dalla retorica dei buoni e dei cattivi. Anzi, c’è un momento in cui tutti sembrano un po’ cattivi, perché la rabbia mette tutti dalla parte del torto e rende brutti. “È l’offesa della loro vita, il buio della loro strada, il sudicio della loro casa, le parole oscene imparate fin da bambini, la fatica di dover essere cattivi. E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra parte, come Pelle, dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio, contro gli uni o contro gli altri, fa lo stesso”.

Sono tutti uguali quindi?, mi sono chiesta. Io di cosa sono capace? Perché io conosco quel senso di ingiustizia che scatena un furore distruttivo, l’odio per i soprusi subiti, la furia distruttiva scatenata dal disagio.

Cosa rende una rabbia diversa da un’altra? Come posso capire se la mia rabbia è più giusta di quella di un altro? Cosa rende lecito esprimere la mia rabbia e condannarne un’altra? Qual è il confine tra dare una voce ad un’ingiustizia e prevaricare qualcun altro che ha ideali diversi?

Per me, io ho trovato tante volte la risposta che la rabbia giusta è quella che tutela i diritti di qualcuno che è stato calpestato, quella che serve a cambiare una situazione che opprime e divide, quella che, alla fine della furia, ha rotto una distanza, ha messo in dubbio un pregiudizio cristallizzato.

È stato emozionante trovare anche nel romanzo di Calvino una risposta simile.

“Tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. […] Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro sé stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo”.

Mi sono chiesta se fosse una scelta troppo politica, quella di un libro sulla Resistenza, quando se ne è parlato tanto e ormai suona un po’ retorico già citare la parola.

Mi sono risposta che abbiamo bisogno di comunità, che gli ultimi anni ci hanno reso ancora più pieni di rabbia e frustrazione e che avremmo proprio bisogno di una riflessione politica nel senso più ampio possibile. Come possiamo tornare a stare insieme? Cosa possiamo fare di tutta questa rabbia? Ha davvero senso scagliarci gli uni contro gli altri, o possiamo usare la frustrazione come energia per evolvere insieme?

Nella foto un’opera di Thomas Mustaki.
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a cura di Elisa Zuri

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