a cura di Elisa Zuri

La gioia è uno dei sentimenti più insidiosi, uno di quelli che più ci traggono in inganno.
Siamo tutti alla ricerca della felicità, ma siamo confusi su dove trovarla. Un po’ perché tutti ce la vogliono vendere, un po’ perché siamo distratti dalle insegne luminose. E se la gioia si trovasse invece passando per zone d’ombra?
Spesso associamo la gioia alla soddisfazione dei desideri, ma nella maturità il desiderare è quasi sempre più appagante dell’oggetto del desiderio. E allora passiamo molto tempo a capire quali sono i nostri desideri, a scoprire cosa ci fa vibrare, cosa ci accende, perché lo sfarfallìo nello stomaco è vita, perché l’entusiasmo è un motore potente e l’eccitazione è uno dei modi più divertenti di stare al mondo.
Siamo drogati di eccitazione, di prime volte, di visibilità che gratifica, di conquiste, di successo, di popolarità, di eterna giovinezza, di oggetti nuovi, di possesso, di carriere in salita, di conferme.
Che fatica.
Quanta dispersione. Quante volte arriva la sensazione di vuoto subito dopo aver raggiunto un obiettivo, l’impressione che il realizzare un desiderio non sia sufficiente. Che ci sia subito bisogno di ripartire a desiderare qualcosa di nuovo.
Come se il desiderare, più che a sentirsi vivi, servisse a coprire che siamo un po’ spenti, che qualche parte di noi è rimasta bloccata strada facendo.
Se invece la vera gioia si trovasse più in uno stare in intimità con sé stessi, in cui davvero, nel contatto con le proprie parti profonde, si sente il calore che scende?
Ne L’incolore Tazaki Tsuruku e i suoi anni di pellegrinaggio di Murakami Haruki il protagonista trascorre una lunga parte della sua vita sentendosi grigio e insignificante. Sente di non avere personalità, di avere un lavoro banale, di non aver mai scelto veramente, di finire per perdere inevitabilmente le persone con cui ha delle relazioni.
All’origine di questa poca stima di sé c’è un abbandono. I suoi amici più cari, con cui al liceo ha trascorso degli anni di forte amicizia e pienezza, all’improvviso l’hanno escluso dal gruppo senza una spiegazione. Il dolore è stato talmente forte da indurlo a ripiegarsi su sé stesso, a convincersi della propria pochezza.
Un giorno però Tazaki inizia a frequentare una donna, a tenere a lei e a sentire che non può perderla. Capisce che è giunto il momento di sciogliere dei nodi, di capire il motivo per cui gli amici di colpo gli avevano voltato le spalle. Li ricerca, dopo sedici anni domanda, vede le evoluzioni delle loro vite. Scopre che quello che si è raccontato era un modo per difendersi dalla ferita inferta, ma non aveva niente a che fare con la realtà. Una realtà in cui lui non aveva colpe, ma era stato vittima di una menzogna.
Il punto è che le cose cambiano, che mentre la vita scorre le situazioni si trasformano. Non accettare questo può generare ombre potenti e pericolose, che mietono vittime, procurano dolore. “L’acqua calda diventa siccità” dice Tazaki. La felicità non risiede in un luogo, o in una persona. Piuttosto in una pratica di apertura, nel mettersi in un cammino di consapevolezza, nel capire e accettare le ragioni degli altri, nello scegliere di conseguenza la propria strada, nel prendere coscienza di chi si è, al di là di quello che si è avuto bisogno di raccontarsi.
Nelle ultime pagine del libro Tazaki, dopo aver conosciuto la versione vera dei fatti e prima di correre finalmente a prendersi quello che vuole davvero, cerca la calma, un respiro più lungo in cui il colore cola sul disegno grigio della sua vita e lo riaccende di senso, di una pienezza riconquistata. La gioia, sembra dirci Murakami, richiede il coraggio di attraversare le proprie ombre, per lasciarle andare.

Nella foto un’opera di Maurits Cornelis Escher.
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a cura di Elisa Zuri

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