a cura di Elisa Zuri

State a casa. Fermatevi.

Un virus sconosciuto penetra le nostre zone di comfort e sicurezza e siamo chiamati a questo, fermarci.

Dobbiamo reagire subito, accettare di trovarci in una situazione mai vista, imparare un nuovo modo di vivere. C’è un pericolo per la comunità, possiamo salvarci solo se ci fermiamo, se interrompiamo tutte le nostre attività, necessarie e non, e ci raccogliamo nelle nostre case.

Dobbiamo evitare i contatti, rinunciare agli abbracci, modificare le abitudini. E stare più soli possibile.

A parte l’apprensione per la salute di chi amiamo, abbiamo anche un’opportunità desiderata tante volte. Possiamo stare a casa a riposarci, godere il tempo libero, inventare nuove occupazioni.

Eppure facciamo fatica, io faccio fatica. Voi? Non voglio cedere all’indigestione di notizie, perdermi nei social e cerco di restare umana. Leggo, ma ho voglia di uscire. Ho sospeso il lavoro, ma mi preoccupa la paralisi delle attività. Sto con i miei cari, ma mi manca poterci muovere nei luoghi che desideriamo frequentare. So che è necessario e temporaneo, ma faccio fatica. La solitudine è una condizione da imparare.

C’è in noi come una fretta di arrivare all’obiettivo, un’incapacità di vivere nella frustrazione, nell’assenza di risposte, nell’incertezza del risultato. Di questi tempi l’illusione del controllo è diventata quasi totale, possiamo programmare al secondo gli spostamenti, essere in contatto con tutto il mondo, trasmettere in tempo reale. Ma la vita ogni tanto ci ferma, ci ricorda che a decidere è lei. E che faremmo meglio a far tesoro del tempo, del mondo e delle capacità che abbiamo.

Mi viene in mente De André, che oltre ad aver scritto un bellissimo Elogio della Solitudine, ha introdotto il suo album Anime Salve (spiriti solitari), dicendo che la solitudine “non tutti se la possono permettere: non se la possono permettere i vecchi, non se la possono permettere i malati. Non se la può permettere il politico: il politico solitario è un politico fottuto di solito. Però, sostanzialmente quando si può rimanere soli con se stessi, io credo che si riesca ad avere più facilmente contatto con il circostante, e il circostante non è fatto soltanto di nostri simili, direi che è fatto di tutto l’universo: dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle. E ci si riesce ad accordare meglio con questo circostante, si riesce a pensare meglio ai propri problemi, credo addirittura che si riescano a trovare anche delle migliori soluzioni, e, siccome siamo simili ai nostri simili credo che si possano trovare soluzioni anche per gli altri”.

La poetessa Mariangela Gualtieri mette a confronto questo momento con l’attesa di una madre, che accoglie il passaggio della natura potente, lo ascolta dentro di sé, accetta di stare in una comprensione lenta dell’universo intorno, si rende fertile. Dobbiamo imparare a guardare il cielo, a fare il pane, a cullare il bambino che è dentro di noi, a curare la nostra specie, a partire da noi stessi.

Così oggi sono uscita di casa a piedi. Ho tenuto la distanza di sicurezza, percorso strade di campagna, salutato qualcuno da lontano, ho guardato il cielo che è immutato e non porta tracce del virus che ci minaccia. I prati sono verdi della pioggia, che è scesa copiosa. Le margherite e gli anemoni stanno fiorendo. La primavera avanza anche lei, delicata e inesorabile. Il silenzio intorno custodisce le storie di chi è rimasto protetto a casa, di chi è costretto a lavorare, di chi sta combattendo l’emergenza in prima linea, di chi cerca di leggere tra le righe di questo momento e ci aiuta a superarlo.

Cerchiamo belle ispirazioni, ascoltiamoci. Prendiamoci tempo.

 

Mariangela Gualtieri

Nove Marzo Duemilaventi
Questo ti voglio dire
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora – farla fruttare.

Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.

E poiché questo
era desiderio tacito comune
come un inconscio volere –
forse la specie nostra ha ubbidito
slacciato le catene che tengono blindato
il nostro seme. Aperto
le fessure più segrete
e fatto entrare.
Forse per questo dopo c’è stato un salto
di specie – dal pipistrello a noi.
Qualcosa in noi ha voluto spalancare.
Forse, non so.

Adesso siamo a casa.

È portentoso quello che succede.

E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.
C’è un molto forte richiamo
della specie ora e come specie adesso
deve pensarsi ognuno. Un comune destino
ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.
O tutti quanti o nessuno.

È potente la terra. Viva per davvero.
Io la sento pensante d’un pensiero
che noi non conosciamo.
E quello che succede? Consideriamo
se non sia lei che muove.
Se la legge che tiene ben guidato
l’universo intero, se quanto accade mi chiedo
non sia piena espressione di quella legge
che governa anche noi – proprio come
ogni stella – ogni particella di cosmo.

Se la materia oscura fosse questo
tenersi insieme di tutto in un ardore
di vita, con la spazzina morte che viene
a equilibrare ogni specie.
Tenerla dentro la misura sua, al posto suo,
guidata. Non siamo noi
che abbiamo fatto il cielo.

Una voce imponente, senza parola
ci dice ora di stare a casa, come bambini
che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa,
e non avranno baci, non saranno abbracciati.
Ognuno dentro una frenata
che ci riporta indietro, forse nelle lentezze
delle antiche antenate, delle madri.

Guardare di più il cielo,
tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta
il pane. Guardare bene una faccia. Cantare
piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta
stringere con la mano un’altra mano
sentire forte l’intesa. Che siamo insieme.
Un organismo solo. Tutta la specie
la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo.

A quella stretta
di un palmo col palmo di qualcuno
a quel semplice atto che ci è interdetto ora –
noi torneremo con una comprensione dilatata.
Saremo qui, più attenti credo. Più delicata
la nostra mano starà dentro il fare della vita.
Adesso lo sappiamo quanto è triste
stare lontani un metro.

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a cura di Elisa Zuri

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